Wim Wenders – America
Il libro “Wim Wenders. America” è il catalogo della mostra fotografica che si è tenuta dal 16 gennaio al 29 marzo 2015 a Varese a Villa Panza, una villa neoclassica del Settecento gestita dal FAI, in cui è presente una grande collezione di arte contemporanea.
Il libro, così come la mostra, è stato curato da Anna Bernardini, direttrice di Villa e Collezione Panza.
Il libro ha la copertina flessibile, è in formato 23×28 cm e contiene 34 fotografie, in bianco e nero e a colori, realizzate dal regista e fotografo tedesco tra il 1978 e il 2003 negli Stati Uniti d’America.
Wim Wenders, nato a Düsseldorf (Germania) il 14 agosto 1945, è uno degli esponenti di spicco del Neuer Deutscher Film, il nuovo orientamento del cinema tedesco affermatosi negli anni Settanta. Oltre ad essere un registra cinematografico, è anche fotografo.
Wenders racconta inoltre di tenere separate le due attività di regista e fotografo:
Quando devo girare un film, non porto mai le macchine fotografiche con me; allo stesso modo, quando voglio fare delle foto, non penso minimamente a un film. Quando faccio il regista viaggio in compagnia, come fotografo invece ho bisogno di viaggiare da solo.
Utilizza solamente macchine fotografiche a pellicola, non digitali. E per i suoi paesaggi non utilizza mai il treppiedi, ma scatta sempre tenendo la macchina in mano:
Portare la macchina all’occhio è parte di un processo intuitivo. Il mio corpo sa come inquadrare una foto. Le mie gambe sanno quando devono avvicinarsi o allontanarsi, e le mie mani conoscono l’obiettivo. Ecco perché utilizzo solo una lunghezza focale. Sulla mia Paubel Makina ho un obiettivo 80mm, che equivale grosso modo ai 35-40 mm delle macchine 35mm, con la Leica. È fondamentalmente la lunghezza focale usata da Cartier-Bresson, la più vicina possibile all’angolo di visuale dell’occhio umano. Sulla mia Fuji panoramica 6×17 l’angolo è più o meno lo stesso. Quando fotografo non faccio uso di altre macchine o lenti.
Ama camminare per scoprire i posti dove fotografare:
Per sviluppare il senso di un luogo, occorre esplorare lo spazio che gli è proprio, camminando tutt’intorno, se possibile. Allontanarsi e avvicinarsi. Sentirne l’odore. Distogliere lo sguardo e guardare di nuovo. A volte bisogna andare via per poi tornare da una direzione diversa. A volte si scopre di essere arrivati proprio nel momento giusto! L’ora è adatta, il luogo è rilassato, a su agio, aperto e lieto di rivelarsi. Questo, naturalmente, dipende soprattutto dalla luce.
Un elemento ricorrente nelle fotografie di Wenders è la distanza, quello che compare all’interno del frame è ricco di dettagli e iper-contestualizzato:
A volte è la distanza a consentire il dialogo con le cose, a volte la vicinanza. Scatto la foto là dove posso percepire la storia del luogo nel modo migliore. Ed è dentro quel luogo che voglio portare l’osservatore. Questo significa che nella mia fotografia ho bisogno del maggior numero di dettagli possibile, in questo modo posso ancora lavorare intuitivamente, con la macchina fotografica in mano. Ecco perché la mia attrezzatura si riduce a due macchine fotografiche a rullino. Una in formato 6×7 e l’altra 6×17.
Wenders preferisce scattare in analogico piuttosto che in digitale:
Il rullino mi permette di realizzare le foto a mano, da solo. A volte invidio i colleghi che utilizzano apparecchiature digitali con folli quantità di pixel e risoluzioni esagerate. Il risultato è spesso di grande effetto, ma sento anche che quelle immagini vedono più di quanto i miei occhi siano in grado di gestire, e questo – a essere onesti – lo trovo un po’ sgradevole. Mi piace l’idea che la fotografia renda ciò che il fotografo ha visto, o è stato in grado di vedere. Questo si rivela nell’inquadratura, nel modo in cui è trattata la luce, i particolari, la distanza, la messa a fuoco. Per questo non voglio una macchina fotografica con la supervista di Superman.
Wim Wenders ama l’analogico anche per il fatto di lasciar decantare le foto, di non poterle guardare subito, ma anzi vedendo i provini a contatto a settimane di distanza:
Non guardavo mai i provini però. L’atto stesso di scattare le foto era sufficiente, o almeno così mi sembrava. […]
Io non voglio vedere l’immagine quando scatto! È una cosa che distrugge tutto l’incantesimo! Come si può ascoltare l’esile voce di un luogo e guardare già il risultato di quella “conversazione intima”! L’ultima cosa che voglio è vedere l’immagine che sto inquadrando! Sono felice di vederla (e riconoscerla) settimane dopo, sul provino. Per “scomparire” all’interno del paesaggio, o della città, ho bisogno del mistero o della magia, di un dialogo aperto, che non sia in alcun modo “orientato al prodotto”. Vedere l’immagine sullo schermo mi mette immediatamente nella disposizione sbagliata: vedo già il risultato di ciò che voglio solo esplorare. È qui che viene meno il mio entusiasmo per la tecnologia digitale.
I colori che troviamo nelle foto di Wenders sono potenti, contrastati, acidi, sono i colori dell’America, dell’artificio, dell’eccesso:
Quando iniziai a viaggiare nell’ovest americano, non riuscivo letteralmente credere ai miei occhi. Trovavo assurdi tutti quei colori. […] Cominciai a fotografarli per abituarmi a loro e alla fine essere in grado di includerli nel film che volevo girare in quel paesaggio, Paris, Texas. Comprai le prime pellicole negative a colori per il mio nuovo acquisto, la Plaubel Makina, e insieme a lei comincia ad affrontare i colori. Per mesi, da solo, percorsi in macchina ogni highway, ogni polverosa strada del Texas, del New Mexico, dello Utah e dell’Arizona. Alla fine superai la timidezza iniziale. E non ho mai più scattato fotografie in bianco e nero.
La prima parte di fotografie presenti nel libro appartengono alla serie Written in the West (Scritto nel West), realizzata da Wenders nel 1983, quando intraprende un viaggio di tre mesi lungo le strade deserte del Texas, dell’Arizona e del New Mexico per trovare i luoghi dove girare il film Paris, Texas (1984). Tutte le sue foto sono realizzate prevalentemente durante dei viaggi, sempre alla ricerca di scatti che catturino l’essenza di un momento, di un luogo o di uno spazio.
Come fotografo, di solito guardo un luogo, sia esso una strada, una casa, un paesaggio o qualsiasi altra cosa. Il più delle volte non ci sono persone nell’inquadratura, e se ci sono, spesso aspetto fino a quando se ne sono andate. Se decido di includerle, si tratta di figure piccole, distanti, “fuse nel paesaggio”. Ma la cosa principale è il luogo in sé.
[…]
Trovo più stimolante vedere le tracce lasciate dalle persone e lasciare che siano i luoghi a parlare. Sono convinto che strade, case e paesaggi sappiano parlare di noi in maniera molto eloquente.
Molte delle sue fotografie sono ambientate nell’Ovest dell’America, terra di speranza e conquiste:
Quando sono stato nel West americano per la prima volta, non riuscivo a credere he fosse stato abbandonato in maniera così profonda e definitiva. […] Sono rimasto colpito dal modo in cui questo paesaggio così aspro e forte avesse resistito a ogni tentativo di domarlo, tanto che alla fine la gente ci ha rinunciato ed è andata via. Per questo ho fotografato il cartello con la scritta sbiadita “Western World Development Project”.
Le ultime foto presenti nel libro sono state scattate a New York, a Ground Zero, dopo gli attentati terroristici alle Torri Gemelle del 2001. Nessuno poteva accedere a Ground Zero tranne Joel Meyerowitz, il fotografo che aveva ricevuto dal comune di New York il compito di fotografare le macerie. E un giorno (più precisamente l’8 novembre 2001) Joel portò con sé Wenders presentandolo come un suo assistente. Aveva portato la sua fotocamera panoramica per cogliere l’ampiezza del luogo. E nei suoi scatti quel giorno ha immortalato Ground Zero in un momento di luce molto particolare, che lo stesso Meyerowitz, che si recava sul posto a fotografare ogni giorno, disse di non aver mai visto da quando prestava servizio lì.
Quel luogo aveva visto un orrore incredibile. Ma ora, per un attimo, mostrava un lampo di bellezza surreale che voleva dire: “Il tempo guarirà le ferite! Questo luogo guarirà! Questo paese guarirà!” […] Spero di aver immortalato quel messaggio.
Nel libro sono presenti anche alcune foto delle location della mostra, Villa Panza, in cui è possibile vedere l’ambientazione in cui erano esposte le fotogafie.
A inizio libro ci sono poi vari testi in italiano e inglese: la prefazione con i commenti di Andrea Carandini (Presidente FAI – Fondo Amniente Italiano), Vassilis Vovos (JTI, Regional President Western Europe), Cristina Cappellini (Assessore alle Culture, identità e autonomie Regione Lombardia), Gunnar Vincenzi (Presidente della Provincia di Varese), Attilio Fontana (Sindaco di Varese), l’introduzione alla mostra di Anna Bernardini e un’interessante intervista a Wim Wenders da parte di Francesco Zanot, da cui ho tratto gli spezzoni riportati sopra.
Dati del libro
Titolo: Wim Wenders. America
Autori: a cura di Anna Bernardini
Casa editrice: Silvana Editoriale
Data di pubblicazione: 12 marzo 2015
Lingua: italiano e inglese
Tipo di copertina: flessibile
Numero di pagine: 112
ISBN-10: 8836630626
ISBN-13: 9788836630622