Ragazza Afgana (Sharbat Gula) – Steve McCurry
La fotografia più nota e famosa di Steve McCurry è sicuramente “Afghan Girl” (Ragazza afgana).
Questa foto fu scattata dal fotografo statunitense nel 1984 e fu pubblicata sul numero di giugno 1985 del National Geographic.
In questo articolo vi racconto la storia di questa fotografia con le parole di Steve McCurry. Il testo è un estratto dal libro “Il mondo di Steve McCurry”, in cui il fotoreporter chiacchiera con Gianni Riotta e racconta vari aneddoti e storie della sua vita di fotografo.
Storia della foto
Nel 1984 la rivista National Geographic propone a Steve McCurry di tornare tra Pakistan e Afghanistan per documentare il fiume di profughi che, dal paese in cui infuria la guerra con i sovietici si trasferisce, con immensi sacrifici, verso Peshawar.
Steve accetta e segue il suo ormai tradizionale metodo di lavoro, senza programmare nel dettaglio ogni istante della missione, ma accettando con umiltà e pazienza che nascano incontri casuali, che si trovi a caso la giusta luce, il giusto volto, l’atmosfera corretta.
Ecco la descrizione e la storia raccontata da Steve McCurry.
Per documentare la migrazione biblica andavo visitando, uno dopo l’altro, le tre dozzine di campi che erano stati allestiti lungo i confini di Peshawar.
Era una mattina di novembre, faceva già molto freddo. Mi aggiravo da solo per uno di questi campi, a Nasir Bagh, vagabondavo meditando sulla disperazione di chi era costretto da eventi lontanissimi per lui a vivere in queste condizioni grame.
[…]
I sentieri erano marcati dai crateri delle bombe, i bambini sempre messi in guardia per evitare le mine, non giocare con gli ordigni inesplosi, ma ogni giorno si contavano comunque morti, feriti, mutilati.
Non c’era con me una guida o un interprete, sceglievo io dove andare.
D’un tratto sentii un breve grido, argentino, da dentro una grande tenda, lo ricordo ben chiaro nella memoria. Entrai dallo stretto passaggio d’ingresso, l’interno era più scuro, penetrava meno luce. Mi pareva di vedere intorno delle mappe geografiche del mondo, riprodotte in poveri colori, con al centro l’Afghanistan. Mi guardai attorno, sembrava una scuola, non nel senso di un’aula scolastica come quelle delle nostre città, la cattedra, i banchi, i laboratori, la palestra.
I talebani avevano represso con durezza l’istruzione femminile, c’erano stati attacchi alle scuole delle bambine, anche con vittime, dunque in un’aula scolastica di studentesse c’era un’aria particolare, guardinga, attenta, protetta. Per sicurezza, tante mamme imponevano alle figlie di coprirsi, tempi difficili, e le bambine obbedivano e non osavano uscire senza velo. A darmi l’ok a entrare fu una donna che avevo conosciuto: «Vada», mi disse.
Conoscevo bene le regole e la tradizione, mi avvicinai all’insegnante, la salutai, feci i convenevoli di cortesia e poi le chiesi il permesso, se fosse possibile per me fotografare le ragazze. Era un autunno terribile, i profughi sentivano che il loro dramma non era rappresentato ancora a tutti, o magari s’illudevano che se l’opinione pubblica avesse preso atto del loro soffrire avrebbe messo un alt alle persecuzioni e alla guerra. Si sbagliavano purtroppo ma, forse motivata da questa speranza, la professoressa mi disse che potevo lavorare nella sua aula improvvisata sotto la tenda.
La ragazza dagli occhi verdi e il velo, col mantello color ruggine, la vidi immediatamente. Molto dopo appresi che si vergognava di quel velo, perché cucinando per la sua famiglia, sulla viva fiamma come si usa là, s’era bruciacchiato e sporcato, ma era l’unico che possedesse e doveva indossarlo, malgrado questo la imbarazzasse davanti alle compagne meno povere.
Non tutte erano a viso coperto e la maestra sembrò rilassata, spesso era impossibile riprendere le donne senza suscitare proteste, minacce.
Le ragazze, come le teenager ovunque, erano divertite, emozionate, rese giocose dalla mia presenza che le distraeva per un momento dalla loro difficile routine. Molte di loro non avevano avuto che rari contatti, o nessuno, con gli stranieri, la macchina fotografica le emozionava, la tecnologia non era loro venuta a noia, come ai nostri ragazzi, erano affascinate.
L’istinto mi suggerì di non chiedere subito alla ragazza dagli occhi verdi di farsi riprendere, l’avrei magari messa a disagio, al centro dell’attenzione e le sue movenze invece erano timide, caute, non era mai stata fotografata prima nella sua vita, era solo incuriosita. Così feci il ritratto a due compagne, che sembravano un po’ più spigliate delle altre e l’aria si distese, le studentesse si avvicinarono a me, ridendo e chiacchierando tra di loro, erano tra dieci e quindici di numero, certo meno di venti, si comportavano in modo fanciullesco, si rincorrevano e poiché il terreno era malamente battuto, alzavano polvere che rendeva opaca la luce già fioca.
Non avevo ancora scattato e già sapevo che sarebbe stata un’immagine forte, importante. Non per me, per lei. La guardavo e non sentivo più il chiasso della scolaresca, i richiami dell’insegnante, i rumori sordi del campo.
Davanti all’obiettivo fu dapprima riluttante, schiva, sembrava quasi decisa a dirmi di no, ma intervenne l’insegnante, con poche parole la convinse. Restò allora calma, non voleva comportarsi diversamente dalle compagne, ma era diversa.
Era una ragazza semplice, una profuga tra milioni, ma aveva lo sguardo fermo, magnifico, fissato verso di me, che sembrava però andare oltre la tenda, il campo, l’obiettivo. In un attimo si concentrò verso la macchina fotografica, sentivo solo silenzio, la luce si fece perfetta, ogni elemento di quell’immagine, il suo velo rovinato, lo sfondo, si allineò alla perfezione.
Il suo sguardo ha molti effetti, infinite nuance, la sua espressione è così colma di contraddizioni, di ombre, che impressiona. Non sorride a ben guardare, ma ha un lampo di curiosità, subito temperato dalla preoccupazione, dal bisogno. Non smette di incantare chi guarda, è – non dimentichiamolo – bellissima, di una bellezza struggente che attrae e chiede protezione, pur emanando indipendenza, orgoglio.
Ha le mani sporche, il volto impolverato, ma emana una bellezza che nessuna delle immagini patinate delle top model riesce ad avvicinare.
Ecco, è forse l’autenticità della bellezza a colpire, ancora prima degli occhi profondi.
[…]
I critici hanno parlato di Monna Lisa, credo riferendosi alla miscela ambigua di mistero, emozioni, ingenuità. Tante persone me ne hanno dato tante diverse letture, opposte interpretazioni e finisco io stesso, ogni volta, per stupirmene.
Solo dopo, molto tempo dopo quella foto al campo di Nasir Bagh, seppi che lei aveva appena dodici anni.
Ho ricostruito quella scena in tante interviste, televisioni, giornali, libri, da quell’immagine è scaturito un lungo dibattito, sulla fotografia, la politica, la guerra, la compassione, la cultura in Oriente e in Occidente.
In realtà il nostro incontro fu assai breve, effimero, pochi istanti, senza formalità.
Uno sguardo, le foto, ne scattai una quindicina, usando il treppiede e una Nikon 35 mm, lei era ancora insicura, non sapeva che cosa stesse accadendo, non disse nulla e subito si levò, allontanandosi.
Per oltre due mesi non potei vedere la sua immagine, ero sempre in viaggio, quasi me ne dimenticai.
Nessuna immagine, per affascinante che sia, è mai al sicuro prima di avere superato, non solo i posti di blocco al confine, ma anche il labirinto di una redazione, le scelte, la furia della deadline.
La copertina del National Geographic di giugno 1985
Steve McCurry racconta anche che la foto della ragazza afgana dagli occhi verdi inizialmente non era stata scelta per la copertina del National Geographic Magazine.La Ragazza afghana non era stata scelta, in prima battuta, per la copertina sul reportage dall’Afghanistan.
Uno dei redattori capo preferiva un’altra mia foto, dello stesso soggetto, ma più intimidita, con il velo rovinato a coprirsi appena il volto, le mani in primo piano, già ruvide per il troppo lavoro, solo un ricciolo di capelli in vista, lo sguardo altrettanto magnetico, ma fuori asse, obliquo.
La foto della Ragazza afghana era piaciuta, ma non per la copertina, sarebbe stata pubblicata all’interno, con il testo del reportage e le altre immagini, più piccina.
La scelta finale, però, per ogni numero, toccava al direttore del National Geographic Bill Garrett.
Bill Garrett, che ha diretto il National Geographic dal 1980 al 1990, racconta così la vicenda della copertina con la Ragazza afghana:
Il capo del desk fotografico sceglieva per me le foto – che chiamavamo “seconds” – non scelte per la copertina ma almeno considerate, insomma quelle che lo avevano colpito, facendogli pensare per un momento: “È da cover?”.
Quella volta però io non ebbi dubbi.
Non appena vidi la foto della Ragazza dissi ai miei colleghi: “Questa. Va in copertina”.
La reazione dei lettori fu immediata, rapidissima, un colpo di fulmine. Tutti se ne innamorarono.
Analisi e critica
A proposito della foto della ragazza afgana, Steve McCurry in occasione di una presentazione a una mostra disse:
Sapevo che si trattava di un’immagine importante, di significato. Per me altre possono essere magari più riuscite, il reportage sulla prima guerra del Golfo e il rogo dei pozzi di petrolio in Kuwait, il viaggio lungo la valle dei Buddha di Bamiyan distrutti dall’artiglieria dei talebani, ma poco conta. Quella foto resterà “LA foto”.
Sempre nel libro Steve McCurry racconta che:
Ci vollero almeno un paio di anni prima che mi rendessi conto di come il ritratto della Ragazza afghana fosse diventato popolare nella fantasia, e nella coscienza di tanti. Dopo la copertina di National Geographic la foto approdò ad altre riviste, quindi in Francia, in Italia, in Inghilterra. Una collana di libri la riprese, ciascuno ne faceva l’uso che voleva, la foto non fu più “mia”, la Ragazza afgana era simbolo dell’emancipazione femminile, della resistenza alla guerra e all’oppressione, altri la lessero come bandiera della forza dell’identità afghana, indigena, contro stranieri e imperialisti. Per un critico era arte, un’opera di equilibrio estetico, per un altro politica, impegno, dibattito. Amnesty International ne fece un poster di battaglia per la giustizia contro la repressione e la violenza.
Secondo il National Geographic questa è ancora oggi la foto più riconosciuta che la rivista abbia mai pubblicato.
David Schonauer – direttore della rivista “American Photo” – parla di Monna Lisa di Peshawar:
Come in Monna Lisa di Leonardo non sappiamo cosa la ragazza stia pensando, vediamo che ha paura, ma è fiera, stupita, perplessa, ha fiducia nella sua bellezza? Ogni volta che la guardiamo, proviamo un sentimento diverso ed è questo che rende un’immagine eterna.
La fotografia della Ragazza afgana è stata al centro di confronti accademici e politici severissimi, simbolo di libertà o di oppressione, icona di giustizia o martire dell’esclusione, ribelle donna o bambina vittima? Fissiamo gli occhi verdi e ci interroghiamo: sono sbarrati per paura? Rassegnazione? Incredulità che la vita possa essere così aspra? Ci accusano, chiedono compassione, sono certi della propria bellezza, affermata come principio vitale di resistenza, pur nell’inferno del campo profughi?
Secondo il critico Anthony Bannon, direttore dell’International Museum of Photography and Film di Rochester, che ha curato numerose monografie su McCurry, la Ragazza afghana testimonia il tentativo di “illustrare la vita degli altri rappresentando problemi che sono universali, diario della nostra condizione umana”.
Al contrario, la professoressa Rae Lynn Schwartz-DuPre della Western Washington University, docente di studi femministi e postcoloniali, argomenta che la foto è finita ostaggio per giustificare le politiche americane del momento, strumentalizzata a orientare l’opinione pubblica in favore di questa o quella guerra.
Domande e risposte sulla Ragazza Afghana
Chi è la ragazza afgana?
Il suo nome è Sharbat Gula, è nata nel 1972 ed è conosciuta anche come Sharbat Bibi. Al momento dello scatto aveva 12 anni. La sua identità è rimasta sconosciuta fino al 2002 quando Steve McCurry tornò in Afghanistan a cercarla per un documentario della National Geographic Television. Il suo nome Sharbat Gula significa piccola fioraia dell’acqua dolce.
Chi ha scattato la foto?
Steve McCurry, fotografo americano nato a Filadelfia il 23 aprile 1950 e membro dell’agenzia Magnum Photos.
Dove è stata scattata la fotografia?
In una scuola allestita nel campo profughi di Nasir Bagh, vicino a Peshawar, in Pakistan.
Quando è stata scattata la fotografia?
Novembre 1984.
Con che macchina fotografica?
Per questo scatto Steve McCurry ha utilizzato una fotocamera Nikon FM2 con obiettivo Nikkor 105mm F/2.5 Ai-S, pellicola Kodachrome 64 a colori e un treppiede.
Curiosità
Un paio di aggiornamenti e curiosità. Sharbat Gula è stata arrestata nel 2016 a Peshawar (Pakistan) per il fatto di aver richiesto nel 2014 una carta d’identità falsa con il nome di Sharbat Bibi. Fu condannata a 12 giorni di carcere e a pagare una pena pecuniaria.
Il 25 novembre 2021 Sharbat Gula è arrivata a Roma, in Italia, nell’ambito del programma di evacuazione dei cittadini afghani e del piano del Governo Italiano per la loro accoglienza e integrazione in seguito all’offensiva talebana iniziata il 1° maggio 2021 dopo il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan.
Libro Il Mondo di Steve McCurry
Storia tratta dal libro Il Mondo di Steve McCurry – Steve McCurry si racconta a Gianni Riotta. Nel libro è raccontata anche la storia della spedizione fatta dal fotoreporter nel 2002 per andare a ritrovare la ragazza afgana. Ma di questo vi parlerò (forse) in un altro articolo.
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Molto interessante questo approfondimento dopo aver visto una mostra del celebre fotografo . Sono stata molto colpita dai Ritratti..
interessante e completo questo approfondimento . conosco la storia . ho i 2 numeri del National . quegli occhi..quello sguardo nn smettono di affascinarmi. seguo le mostre di Steve Mc.Curry ovunque in Italia compresa quella attuale di Firenze. grande Steve . ps arrivata in Italia a Roma Sharbat vive lì con la famiglia ?
Buongiorno Sandra. A quanto pare Sharbat Gula oggi vive in Italia, ma non si conosce il luogo preciso. L’ultima intervista era uscita sul Venerdì di Repubblica del 29 dicembre 2022, ma alla giornalista che era riuscita a trovarla e intervistarla era stato chiesto di non fare foto e non dare indicazioni sul luogo dove vive.